Foresti i cuochi, ma nostrani i divieti
Rieccoci in corsa. Dopo la cavalcata attraverso la moltitudine dei «primi», il viaggio non meno stimolante nel pianeta dei «secondi»…
Per i quali necessità anzitutto una considerazione di fondo. I «primi», come più volte abbiamo osservato, nacquero di massima fra il popolo, come piatto unico: i più abbienti presero poi in considerazione tali preparazioni per le loro doti, li ingentilirono, per così dire li codificarono. Per i «secondi» il discorso è diverso. Essi — sempre in linea di massima, ma non mancano eccezioni addirittura auree — videro la luce nelle classi superiori, se mai passarono agli strati più umili con le migliorate condizioni economiche e sociali di questi ultimi. Mostrano quindi meno peculiari caratteri regionali, per la maggior cultura, dei ceti in cui nacquero, che li portava a conoscere la cucina d’altri territori.
Al livello più alto, inoltre, ci si valeva naturalmente di cuochi, che più erano rinomati e maggiormente vantavano fattive esperienze eterogenee: modi mantovani — poniamo — ferraresi, fiorentini, romani o veneziani si affacciarono quindi ai nostri fornelli.
Un certo freno alla creatività in materia, poi, fu rappresentato dalle «leggi suntuarie»: tanto curiose, da meritare un ricordo in questa sorta di discorso introduttivo. Disposizioni dettate dallo sfarzo eccessivo delle mense liguri del passato, e dai conseguenti tentativi di indurre alla moderazione.
Già nel 1325, al proposito, venne proibito a Savona di superare per un pranzo la spesa di lire 50, e norme consimili poco dopo venivano emanate nella stessa Genova; quanto fossero osservate, peraltro, basta a chiarire il costo del banchetto tenuto nel 1362 in onore della marchesina del Monferrato, ammontante a ben 200 lire. Comunque le prevaricazioni masi scoraggiarono le autorità, infaticabili nel rinnovare in materia di divieti e disposizioni, sino a precisare nel 1484 — essendo Doge e contemporaneamente arcivescovo Paolo Fregoso — una lista delle vivande consentite, che peraltro a noi, poveri posteri semidispeptici, non pare eccessivamente severa.
In nome della legge, dunque, si poteva servire vino moscatello con biscotti, che stranamente aprivano el grandi manovre conviviali, poi «peverada» — ossia un brodo con infuso di pepe, che oggi ci devasterebbe — oppure una salsa, purché non contenesse miscele di zuccheri; «carne vitelorum, castratorum et capretorum» — Si aggiungeva nel testo, per cui non ci pare occorra una profonda conoscenza del latino — e riso, e «galinis, caponibus, pullis coctis in aqua», infine dolciumi e frutta.
Tutto questo per il pranzo, mentre a cena ci si doveva accontentare di gelatina «facta ex carnibus», salsa verde, «galinis, caponibus, pullls ad ro-stum», torte senza zucchero, consentito invece nei dolcetti di varia specie detti «dragiate», e frutta. Una multa oscillante dai 20 ai 50 ducati era ammannita per i contravventori, e da 5 a 10 dovevano pagare cuochi e servitori complici dell’infrazione.
Più indulgenti i responsabili si mostravano per i banchetti nuziali, ma le spese eccessive erano impedite per altra via. Al massimo due pranzi potevano essere banditi dal padre, per felice che fosse d’aver sistemato una figlia; e nel primo di essi lo sposo non poteva invitare più di due amici, né più di otto nel secondo.
Nel 1494, inoltre, avendo gli Illustrissimi constatato che s’era diffusa la consuetudine, da parte della madre e delle parenti più prossime, di far visita alla coppia novella e di trattenersi per il pasto — pratica che viene severamente definita «pessimus usus» — senza troppi riguardi per le suocere stabilirono che si servisse loro, evidentemente a scoraggiare successivi auto-inviti, soltanto una squallida zuppa e altrettanto deprimenti uova…
Fra i rarissimi strappi alla regola, più curioso quello riguardante il banchetto del I Martedì Grasso. Quando, all’insegna della lecita pazzia ricorrente una volta all’anno, i genovesi di buona volontà e di altrettanto buone condizioni economiche si regalavano le più patenti trasgressioni alimentari. E a saperci fare, per il gusto sempre stimolante di infrangere la legge — anzi due leggi, coinvolgendo l’occasione anche le disposizioni ecclesiastiche — si poteva pure iniziare la Quaresima con una solenne strippata. Era sufficiente dimostrare con lo stato delle mense e della cucina — alla possibile ispezione delle guardie — che si trattava dell’ininterrotta prosecuzione del cenone dell’ultima sera di Carnevale.
Michelangelo Dolclno