C’era una volta il pavone
Il pavone veniva in passato allevato nei giardini per la sua indubbia bellezza, ma conobbe pure impieghi gastronomici, anche se pare che il suo sapore non possa decisamente paragonarsi all’ineffabile armonia della «ruota»; «Io stesso — ha scritto ad esempio Hyams — ho mangiato carne di pavone e posso dire che è pessima, sorprendentemente dura e senza un suo particolare sapore»… Ma la bontà era in fondo secondaria: chi lo offriva ai commensali si preoccupava principalmente di abbacinarli con lo sfarzo, di ostentare la propria raffinatezza.
Originario dell’Asia centrale, fu importato dapprima dai popoli dell’Arabia meridionale; da questi passò ai Greci, e quindi ai Romani. I Greci lo considerarono uccello sacro a Giunone, i Latini — più pratici — provarono appunto a cucinarlo. L’oratore Quinto Ortensio sarebbe stato il primo a fare ciò; Commodo, in seguito, in una sorta di delirio di ricercatezza, ammannì agli ospiti porzioni di sole lingue… Ma generalmente veniva preparato allo spiedo, e così comparve pure sulle mense medievali dei nobili e prelati più abbienti.
Simbolo per i cristiani d’immortalità e resurrezione, definito in varie religioni orientali «signore di vita» e «luce e fiamma» — nell’Iran pre-Khomeini era emblema del potere imperiale — l’uccello dava a volte luogo, nei conviti, a una particolare cerimonia. L’ospite principale, quando tutti s’erano nutriti di quella carne, pronunciava il «giuramento del pavone», promettendo la realizzazione d’una mirabolante impresa.
Michelangelo Dolcino