Elogio della trippa
In una fredda sera del gennaio 1841, un giovane sostava in una botteguccia di via San Sebastiano. La sua tristezza aveva più che legittime motivazioni: da poco tempo, in rapida crudele successione, la morte gli aveva strappato la moglie e due figli, e proprio quella sera, infine, al vicino Carlo Felice la sua opera lirica aveva avuto un’accoglienza più che scoraggiante. L’artista alla soglia della disperazione era Giuseppe Verdi, e l’opera in questione «Oberto, conte di San Bonifacio»…
Malgrado le circostanze non precisamente accattivanti, Verdi tornò in seguito a Genova, sempre più spesso e per periodi più lunghi, sino a svernarvi regolarmente con la seconda moglie, Giuseppina Strepponi.
E a parte il clima — azzardiamo —, la presenza di amici e il fatto che la nostra città era allora una «piazza» artistica importante, chissà che nella scelta non abbiano influito le sensazioni raccolte nella botteguccia di via San Sebastiano: una tripperia.
Una delle tante di allora, frequentate specie d’inverno, col caldo buono che si levava in volute dai capaci calderoni sul fuoco di legna; dispensatori d’ottimo brodo — ritenuto fra l’altro indispensabile rigeneratore dopo una «ciucca» — che diventava soddisfacente piatto unico con qualche fetta di pane e pezzetti assortiti di trippa: una sorta di gustoso mosaico, dove distinguere le grazie di centopelle, poniamo, scuffia, gentile o castagnetta: ovvero, l’omaso dei ruminanti, e per gli altri termini tratti diversi dell’intestino, sino alla parte assolutamente ultima, quella che proprio… confina con l’esterno.
Ma per la trippa, in definitiva, vale particolarmente l’osservazione più volte ripetuta. «Materia prima» povera, di remota pertinenza dei più umili, che per intervento della fantasia e la commistura sapiente con altri ingredienti, ha assunto connotati gastronomici di tutto rispetto, diventando una vera ghiottoneria.
Michelangelo Dolcino