L’odissea delle patate
Verdure fritte. Piatti più che notevoli, o almeno in passato economici. Ingredienti che i contadini, i popolani potevano procurarsi con facilità, come l’olio necessario alla preparazione, come le patate che sono alla base di un’altra squisitezza, i «cucculll». Una vera provvidenza per la gente di campagna, per l’appunto le patate, una sorta di simbolo: uno dei maggiori doni fatti dal Nuovo Mondo a quello Vecchio.
Eppure la loro conquista delle mense europee fu tutt’altro che facile. Pablo Cortez — si dice — fu il primo a portarne in patria, agli inizi del ‘500, offrendone al conte José Coruna, arcifamoso buongustaio sivigliano. Questi ne fece cuocere per i commensali, ma rischiò di compromettere il suo prestigio: i tuberi furono giudicati scipitissimi, e qualcuno si ritenne addirittura offeso. Ancora un secolo dopo, del resto, Luigi XIII di Francia conobbe eguale insuccesso, offrendone ad un banchetto di corte: il conte di La Bardatone ne fu tanto indignato da dichiarare che mai più avrebbe rimesso piede nei reali palazzi-Quanto ai dotti, le cose andavano anche peggio: in un trattato borgognone del 1651, ad esempio, si legge fra l’altro che «I frutti delle patate non si hanno da mangiare, perchè sono piuttosto velenosi e qualcuno è cagione pure di lebbra». Giudizi che ovviamente non giovavano alla causa delle patate, peraltro rifiutate pure dai contadini, costituzionalmente restii a modificare le colture, e tutt’al più disposti — I più longanimi — a nutrirne i maiali. Se mai, riuscivano in pieno ‘700 ad affermarsi in altre direzioni: per la produzione di amido e alcool, e come pianta ornamentale, specie da quando Luigi XVI e Maria Antonietta erano comparsi ad un ballo adorni proprio di quei fiori.
Tale re apprezzava i tuberi anche a tavola, ma il suo esempio non mostrò maggiore forza agli altri: fu soltanto ad opera di Antoine Augustin Parmentier che gli estimatori trionfarono. Agronomo e farmacista, edotto sulle doti alimentari delle patate quale prigioniero nell’Hannover — durante la guerra dei Sette Anni — si mostrò pure ottimo psicologo. Fece seminare i tuberi in un enorme terreno alla periferia di Parigi, poi lo cintò e sorvegliò con un nugolo di guardie. Come sperava, la trappola scattò. Se le precauzioni erano tante — conclusero i popolani — occorreva rivedere le opinioni, si trattava evidentemente di prelibatezze. E perchè dovevano profittarne pochi privilegiati, i soliti nobili?
Cominciarono razzie notturne, regolarmente riuscite, visto che le sentinelle avevano ordine di chiudere entrambi gli occhi… E così, condite dal gusto dell’illecito, le patate entrarono nell’alimentazione dei francesi, per non uscirne più.
Per verità, le cose erano andate meglio in Prussia, dove Federico II era riuscito per tempo a imporre l’esotica coltura ai sudditi, e in Irlanda, dove s’era dimostrata provvidenziale per la tragica indigenza delle campagne. E in Italia? Anche qui si cozzò per secoli contro il rifiuto di agricoltori e consumatori, e i pochi propagandisti potevano al più ottenere d’essere derisi: come l’illustre Pietro Arduino, dal 1765 ordinario d’Agricoltura a Padova, diffusamente chiamato «Professor Patata». I repertori enciclopedici dicono che nella penisola la patata stessa vinse soltanto nella prima parte dell’800, per merito del veneziano Vincenzo Dandolo; ma la verità è un’altra, almeno per la Liguria.
Come si legge in vari numeri del genovese «Foglio di notizie e avvisi diversi», anno 1792, Michele Dondero, parroco di Roccatagliata, s’era procurato nell’86 «dalle montagne degli Svizzeri alcune libbre di Patate Rosse», e le aveva seminate. Soliti schemi, soliti rifiuti; ma si dovette ammettere che con quel cibo i maiali ingrassavano sorprendentemente, e che il racconto era più che lusinghiero: dopo sei anni — tramutando gli obsoleti nibbi e mine nelle nostre misure — un terréno che avrebbe dato, per ammissione generale, circa 7 quintali di granoturco, ne donò ben 56 di patate… In sei anni, appunto, il sacerdote seppe fare il miracolo, convertendo i «fontanini» alla nuova coltura, tanto più che egli stesso suggerì nuovi impieghi: «Le ha grattate alla maniera delle zucche preparate per torte: successivamente rimescolandole con farina di qualunque specie le ha impastate per l’uso di tagliarelli». Un primo tentativo sulla via della perfezione raggiunta per la pasta delle «troffie» o dei «cucculli». E anche ne fece «polenta» — la mamma del purè — e «le focacce poi son perfette, e di grato sapore»…
Insomma, grazie all’oscuro parroco «la valle Fontanabuona di presente vale il doppio di prima, e generalmente si vive assai meglio»; e di li la coltura si estese in fretta a tutto il Genovesato.
Michelangelo Dolcino (1975)