I Morti
Tristi tradizioni, quelle legate al 2 Novembre. Come in altre regioni, intanto, i letti erano rifatti con lenzuola di bucato, alzandosi più presto del solito: si pensava che i defunti nel loro particolare giorno tornassero a riposare nella propria casa. Dove la seguitissima funzione funebre si teneva di notte, l’operazione era compiuta la sera, prima di recarsi in chiesa: anche, si lasciavano lumi accesi, affinché i trapassati si compiacessero del buon assetto delle stanze; in molti luoghi si apparecchiava per loro la tavola. Nell’Imperiese ancor oggi vi è chi lascia le finestre aperte, per permettere più agevolmente l’ingresso alle anime dei trapassati. Quasi dovunque, infine, si usava offrire la fava dolce – o comune – che col suo fiore nero, unico fra tutti, meglio simboleggia il lutto.
Più recente la consuetudine della visita ai propri cari scomparsi, nella necropoli di Staglieno: dal 2 gennaio 1851, ad essere rigorosi, quando fu aperto ufficialmente il complesso cimiteriale progettato da Carlo Barabino ma realizzato da Giambattista Resasco. In quel giorno vi fu inumato tale Antonio Procurante: nel campo 1, fila I, fossa I, si trovò ad essere per tre ore l’unico ospite, sinché accanto a lui venne posta certa Lucia Crudo. Alla chiusura della prima giornata d’attività, quattro risultavano le operazioni compiute; oggi, fra tumulazioni, traslazioni eccetera, quotidianamente non sono meno di cinquanta.
Il meno cupo argomento del pranzo è sintetizzato da un diffuso proverbio: “A-i Morti, bacilli e stocchefisce no gh’é casa chi no i condisce’: nel giorno dei Defunti, cioè, non v’è casa che non condisca “bacilli” – piccole fave secche – e stoccafisso. Di quest’ultimo già s’è detto a proposito di San Silvestro; aggiungiamo soltanto che in passato si riteneva migliore proprio quello reperibile a Genova, convenientemente apprezzato pure da Garibaldi – dopotutto un ligure – e perciò inviato regolarmente a Caprera, a cura dei fedeli commilitoni. Dunque, un patente peccato di gola anche in tale giorno, con un soffio appena di giustificazione: la fava – come s’è accennato sopra – dai tempi più antichi è collegata al culto dei defunti, anche come simbolo della forza rigeneratrice della terra.
Egualmente tradizionale, dopo il piatto unico, i “balletti”, ossia castagne lessate con la buccia: anche necessarie per preparare un regaletto ai bimbi, in ossequio ad altro proverbio: “A-i Morti, aspètan i figgieu a resta di balletti e l’offizieu” (Ai Defunti, aspettano i bimbi la collana di ballotte e l’officiolo) …
Quest’ultimo era una candelina multicolore estremamente sottile e lunga, tanto da essere avvolta in piccole soffici matasse di varia forma: di libretto, cestino, vasetto, eccetera. Oggi pressoché introvabili, gli “offizieu” dovevano ardere nel corso delle preghiere serali recitate in famiglia per i propri scomparsi, ma regolarmente finivano per essere divertimento dei più giovani, che dalla cera fusa ricavavano pupazzetti e altro. Unica condizione inderogabile: trastullarsi sul marmo del lavello, per avere a portata di mano, in caso di guai, tutta l’acqua necessaria.
Quanto alle “reste”, le collane di “balletti”, erano preparate con un robusto ago da lana e congruo filo; le più sofisticate mostravano anche, a regolari intervalli, piccole mele, qualche volta a ripetere nell’insieme la struttura d’un rosario. Un dono offerto – come l’insegna di un ordine cavalleresco – con un immancabile rituale: la sollecitata promessa di non dilapidarlo “dans l’espace d’un matin”.