Mercoledì delle Ceneri
Soltanto il calendario, ormai, ci ricorda la Quaresima, che gradatamente ha perso i caratteri sostanziali. Ad esempio la tavola di tutti, o di quasi tutti, mostra le stesse vivande degli altri periodi dell’anno. Un vero abisso ci divide dagli avi, che intendevano l’alimentazione quaresimale quale imitazione del digiuno affrontato da Gesù nel deserto.
Eppure qualche “ribelle” esistette in ogni tempo, magari cercando aiuto nelle pagine della «Genesi»: il pollame, secondo questi, era da ritenersi “cibo di magro”, alla stregua dei pesci, considerato che volatili e abitanti delle acque furono creati nello stesso giorno. E certi monaci medievali addirittura s’imbandivano feti di coniglio, invero poco allettanti per le nostre papille gustative: immersi nel liquido amniotico del ventre materno – argomentavano – ben potevano considerarsi pesci… Una considerevole distanza, consentirete, dalla mistica severità di Santa Caterina da Genova, capace di trascorrere ventitré quaresime senza toccar cibo, paga di bere acqua con aceto e sale.
In genere, tuttavia, un periodo rigidissimo, che cominciava subito dopo il Martedì Grasso, ovvero col “Macordì do scuòto”, come lo chiamavano i genovesi di una volta, giacché in quel giorno si provvedeva a ripulire – cioè a “scuà’ – le stoviglie dal grasso di carnevale. “Macordì de Genie”, anche, “Mercoledì delle Ceneri”, legato all’allarmante ammonimento: “Ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai”…
L’espressione, resa ancor più cupa dalla rotonda sonorità del latino, trasmetteva sempre un po’ d’inquietudine, quando da bimbi ci si accostava al sacerdote per ricevere la personale porzione di cenere, la piccola impronta al centro della fronte. Un rito immutato per una quantità di secoli, che conobbe una sola variante, quando un tipetto quale il dantesco papa Bonifacio VIII, il più fiero avversario dei ghibellini, volle ammonire il nostro arcivescovo Forchetto Spinola, che come tutti i suoi familiari non nascondeva simpatie per quel partito: la polvere grigia finì negli occhi del personaggio, anziché sulla fronte, e la formula suonò precisamente così: “Ricordati, uomo, che sei ghibellino, e in polvere coi ghibellini ritornerai”.
Affollatissimi, a partire da quel Mercoledì, risultavano i Quaresimali, cioè i cicli di sermoni per cui le varie chiese si assicuravano i predicatori più famosi, le doti dei quali rappresentavano oggetto di interminabili discussioni. Tra i maggiormente memorabili quelli di Bernardo da Chiaravalle, il predicatore delle Crociate, e di Bernardino da Siena, che con vibranti perorazioni indusse i genovesi a formare un gran rogo di carte da gioco, preziose scarpette, maschere: potè così realizzare uno di quei “bruciamenti delle vanità” che in seguito dovevano diventare consueti a Firenze, col Savonarola. E lo stesso severo fra Gerolamo predicò fra noi in una lontana quaresima – portando poi alle donne toscane come edificante esempio il pio contegno delle genovesi – e il beato Sebastiano, e San Vincenzo Ferreri, e il patriota Ugo Bassi, e tanti altri, che se anche non saliti alla gloria degli altari lasciarono l’ammirato ricordo della spumeggiante eloquenza.
Il lungo periodo di penitenza, comunque, iniziava nel Mercoledì delle Ceneri con una vera ghiottoneria, lo zimino di ceci: una tradizione che val la pena, in misura particolarissima, continuare o riprendere.
I ceci, si sa, sono alla base di una quantità di lodevoli preparazioni locali, dalla farinata, alla paniccia, fritta o no, ai “coccolli” : quasi sono cosa intimamente nostra, a cominciare dal nome, quel “geixai” che risulta particolarmente ostico ai forestieri. Tanto che in un’imprecisabile congiuntura bellica del lontano passato – come si favoleggia – “talpe” infiltrate nei nostri schieramenti vennero smascherate proprio per l’impossibilità loro di pronunciare in modo accettabile la parola.
Per “secondo” consigliamo una frittata d’ortica. In sintesi, un capolavoro d’ipocrisia. Fa pensare istintivamente alla penitenza, alla mortificazione, sembrerebbe cibo da santo eremita dei boschi, ma… ma provate ad assaggiarla. E a parte il sapore, delicatissimo, l’ortica è oltremodo ricca di minerali, ed ha azione diuretica e depurativa, risultando al tempo stesso immune – come pongono in evidenza gli esponenti delle ali più avanzate della dietologia – da ibridazioni capricciose, trattamenti anticrittogamici e altre moderne diavolerie. Come ha scritto Elda Peletta, “le erbacce rispetto alle verdure hanno (perché nessuno ha ancora avuto la brillante idea di concimare le ortiche) la mancanza d’intervento della mano speculatrice dell’uomo”.
Munitevi quindi d’un cesto, di forbici per recidere i ramoscelli più teneri e soprattutto di guanti, a salvaguardia delle mani, visto che tale pianta è in grado di farsi decisamente rispettare per l’acido formico che dispensa con facilità; dopo la degustazione, c’è caso – sia perdonato il banale gioco di parole – che buttiate le verdure tradizionali alle ortiche.
Zemin de ceixai (Zimino di ceci)
Frità d’ortiga (Frittata d’ortica)
Insalatta mista (Insalata mista)
Cuori di scarola; 2 trevigiane; un finocchio; un mazzo di ravanelli; sale; olio extravergine d’oliva; aceto di vino bianco.Utilizzare i cuori delle scarole impiegate per i ravioli: pulirli e porli a bagno con la trevigiana, il finocchio, le cipolline e i ravanelli, il tutto mondato con cura.Preparare in una piccola ciotola il condimento, emulsionando un cucchiaino di sale con un cucchiaio d’aceto e tre d’olio. Porre la ciotola al centro d’un piatto da portata grande e rotondo.
Tagliare a striscioline la scarola e farne una corona attorno alla ciotola; ripetere l’operazione con la trevigiana, che verrà posta all’esterno della scarola. Affettare il finocchio molto sottilmente e disporlo esternamente alla trevigiana; se sarà possibile, tagliuzzare i ravanelli in modo da dar loro la forma di fiore, e sistemarli comunque presso il bordo del piatto. Eliminare la parte verde delle cipolline e adagiarle nella ciotola del condimento, appoggiate al bordo in modo che possano essere prese senza ungersi le dita: così esaleranno un po’ d’aroma all’intingolo, rendendolo più appetitoso.