Che bella la Cucina Bianca
Si chiama così perché il colore dominante è il bianco in tutte le sue tonalità, dalle sfumature più candide del latte appena munto, della sua panna – quella “vera” e pregiata –, della ricotta, fino all’avorio del burro e dei formaggi più o meno stagionati. E poi i cereali e gli ortaggi bianchi: i porri, l’aglio, le rape, le patate. Un mondo di variazioni culinarie basate in gran parte sull’alimento primario di ogni essere umano, almeno nel primo percorso di vita.
Dove c’è latte c’è allevamento, ci sono uomini e animali che talvolta da secoli convivono sullo stesso territorio secondo cadenze e ritmi imposti dalla natura e governati dalla capacità, dall’esperienza e dal buon senso di chi eredita saperi consolidati da trasmettere, a sua volta, ai successori. Alla cura degli animali si affianca sempre l’attività agricola che attraverso colture adattabili alle caratteristiche locali integra la produzione contribuendo a fornire, non senza fatica, il necessario per vivere. Questo lento e costante passaggio di consegne, via via arricchite dagli interpreti del momento, stratifica nel tempo una ricca tradizione pastorale capace di segnare la storia di un luogo.
E questo luogo è la montagna dell’estremo Ponente ligure, nella provincia di Imperia, zona di secolare vocazione pastorale condivisa con i territori confinanti, dalle valli cuneesi a quelle francesi. Su quei crinali, che hanno visto generazioni di pastori governare i loro animali, le cicliche transumanze, i ritmi duri della vita d’alpeggio, gli inverni difficili e sempre troppo lunghi, hanno saputo comunque definire un profilo gastronomico che oggi diventa patrimonio identitario e per questo viene giustamente valorizzato.
La cucina bianca è eccellente, quindi perfettamente in grado di soddisfare chi ha la fortuna di gustarla. Tuttavia, con un piccolo, ulteriore sforzo si può anche arrivare a capirla, per assimilarne l’essenza e il significato più puro e autentico. La splendida sequenza di piatti e specialità che oggi viene proposta da chi interpreta questa singolare e ottima cucina, rappresenta l’immagine dei soli e rari momenti di festa nella dura vita pastorale e non certo del quotidiano, dove le condizioni generali imponevano un’alimentazione certamente più sobria, monotona e talvolta, purtroppo, carente. Ed è proprio per questo che poche volte l’anno ci si concedeva il lusso del “mangiare”, preparando diverse pietanze da consumare in quantità in modo da onorare la festa e saziare, una volta tanto, il perenne appetito.
Latte, formaggi, cereali, legumi e ortaggi bianchi i principali ingredienti della cultura gastronomica di queste montagne, capace di esprimere punte di eccellenza e originalità oltre a specialità e piatti davvero significativi. Uno fra tutti, i sugeli, sorta di gnocchetti dalla forma simile alle orecchiette comuni nei territori confinanti anche se talvolta chiamati diversamente.
Una pasta di sola acqua e farina che assume la classica forma concava grazie ai cosiddetti corpi de dìu, i colpi di dito, metodo assai diffuso in molte altre cucine per ridurre l’impasto in piccole particelle uniformi. D’altronde non c’è gran differenza – se non ce n’è per nulla – fra i sugeli, i croset provenzali o cuneesi e i corzetti genovesi più antichi o i tabarchini: quasi identica la pasta, molto simile il metodo, altrettanto il risultato finale. Ciò che cambia è il condimento, che per i sugeli è una salsa a base di brusso, originale ricotta fermentata che col tempo assume un sapore intenso e deciso capace di accompagnare bene i piatti di pasta, se dosata con saggezza.
Molto interessante anche la panissa di gasce , sorta di polentina di cicerchie – qui definite appunto gasce –, alle quali talvolta si aggiungono i piselli secchi a formare un preparato morbido da mangiare caldo.
Questo piatto, che proprio attraverso un legume povero e ormai perduto in gran parte della montagna ligure sa esprimere tutta la sua forza tradizionale, riporta in luce un metodo di preparazione fra i più semplici e antichi, cioè la riduzione di cereali e legumi a una poltiglia più o meno densa che a seconda dei casi si può mangiare come una sorta di zuppa, come una polenta, o fredda, condita con i soliti formaggi saporiti, anche il giorno successivo. E poi le tante declinazioni culinarie delle patate, vera e propria benedizione per le popolazioni di tutto l’arco montano ligure e non solo.
Citare le numerose preparazioni della cucina bianca sarebbe inutile, monotono e forse controproducente, perché scriverne non può certo paragonarsi all’emozione di assaggiare ogni singolo piatto, annusare il profumo dei formaggi, provare anche solo a spalmare una punta di brusso su una fetta di pane croccante, cercando di capire le ragioni di un formaggio che rappresenta un metodo di conservazione della ricotta, un modo per assicurarsi una scorta alimentare, un gesto di quella economia rurale e domestica di cui tutta la cultura alpina e montanara è intrisa fin nella più piccola espressione.
Tentare di comprenderla a fondo e arrivarci vicino riserva una gioia unica.
Sergio Rossi, giugno 2012