Come nasce un mortaio per il pesto
Se si vuol fare un buon pesto occorre partire dai buoni ingredienti. Poi ci vuole il mortaio di marmo col pestello di legno. Infine la cosa più importante: l’abilità. Dato che quest’ultima si impara con l’esercizio e i buoni ingredienti ormai li conoscono tutti, credo sia interessante soffermarsi sul mortaio.
Preso dalla curiosità di capire come si fabbrica un mortaio nel 2010, nei giorni scorsi mi sono recato a Carrara, storica patria del marmo e degli artigiani più capaci.
Il mio punto di riferimento è la ditta Marmotecnica, un’azienda a conduzione familiare che produce qualche migliaio di mortai da pesto l’anno destinati alla vendita in Italia e all’estero. A rivelarmi i segreti dell’arte è il titolare Giordano Baudoni che col figlio conduce l’attività. La sua ultracinquantennale esperienza traspare ad ogni spiegazione. Quando il signor Giordano parla del marmo è come se ti raccontasse la storia di un suo amico del quale conosce tutti i segreti anche se, come si addice ad un gentiluomo, non svela quelli più intimi. Il suo mestiere è anche arte e necessita di un po’ di riservatezza perché a volte anche i più piccoli progressi nella lavorazione sono il frutto di anni di prove, di esperimenti e di modifiche che costano fatica e tempo.
Ma partiamo dal punto principale: il tipo di marmo.
Per fare un buon mortaio ci vuole il marmo bianco di Carrara, che sia di grana fine e compatta e che non presenti difetti. I blocchi arrivano direttamente dalle vicine cave e subiscono una prima lavorazione di sgrossatura che contribuisce a suddividerli in grandi pezzi. La fase successiva è la squadratura al fine di formare i parallelepipedi delle dimensioni proporzionali al formato di mortaio che si vuole ottenere.
Da qui si passa ad una prima sagomatura del pezzo che comincerà ad assumere vagamente la forma di un mortaio anche se privo della cavità interna e ancora spigoloso e grezzo.
Successivamente si va alla tornitura che innanzitutto consente di svuotare il mortaio nella parte interna. A seguire si arrotonda l’esterno e si sagomano le orecchie. Si passa quindi ad una prima levigatura interna ed esterna per poi rifinire a mano ogni pezzo, smussando e arrotondando i bordi.
Ecco fatto: in dieci righe e meno di 150 parole il mortaio è pronto! Si, dirlo è anche troppo facile ma nella realtà è tutta un’altra cosa.
Il signor Giordano mi spiega che dall’inizio alla fine della lavorazione mediamente si prende in mano il mortaio per una ventina di volte, e io stesso ho potuto verificare che tutte le fasi prevedono la presenza indispensabile dell’operatore che materialmente governa le diverse macchine utensili. È vero che non si usa più la mazzetta e lo scalpello ed è vero che grazie alla tecnologia la lavorazione è molto più veloce di prima, ma è altrettanto vero che senza la mano dell’uomo – esperto – le macchine non servono a niente.
Fra una spiegazione e l’altra, Giordano Baudoni mi racconta interessanti aneddoti legati proprio alla lavorazione dei mortai all’antica. Mi spiega che quando era giovane, andare a bottega per imparare il mestiere era un sacrificio e si doveva imparare dai rudimenti facendo la cosiddetta gavetta. Uno dei primi test a cui era sottoposto l’apprendista era la prova di squadratura di un blocchetto di marmo. L’esercizio era più volte ripetuto e una delle fasi successive consisteva proprio nel ricavare dal blocchetto un mortaio. Quando il risultato era considerato accettabile si faceva una sorta di battesimo dell’apprendista con un generale brindisi. Costruire mortai era una pratica piuttosto diffusa da quelle parti e in alcuni borghi vicini alle cave c’era tanta gente specializzata in tal senso. Dietro Carrara, nei dintorni di Colonnata, piccolo borgo montano conosciutissimo per via del famoso lardo che vi si produce, c’è una cava abbandonata che si chiama la Mortarona proprio perché da lì uscivano parecchi mortai. Mi racconta il signor Fiorentini, appassionato artigiano del marmo, che i cavatori, finito il lavoro in cava, la sera scendevano alla Mortarona, cercavano un blocchetto adatto per fare un mortaio e si mettevano a lavorarlo direttamente sul posto. Se potevano lo finivano altrimenti lo nascondevano assieme ai ferri per poi ultimarlo il giorno seguente. Quel “dopolavoro” serviva ad integrare la paga. I mortai così realizzati quasi sempre finivano ai raccoglitori che li avviavano poi alla vendita. C’è da notare che tutto il lavoro, dalla sgrossatura alla rifinitura, era fatto a colpi di mazzetta e scalpello e richiedeva quindi una notevole abilità.
Anche se oggi nella ditta Baudoni non si producono più mortai fatti a mano, a catalogo c’è comunque un “fuoriserie”. Si tratta di un mortaio ancor più rifinito e lucidato, dotato di pestello di legno d’olivo e racchiuso in un’elegante cassetta di legno. Ovviamente si tratta di un pezzo da amatori molto più costoso dei modelli standard.
Come dicevo prima, è stata una casualità che io mi recassi dal signor Baudoni per scoprire come si fa un mortaio, ma la coincidenza più curiosa riguarda un particolare che ho raccontato nell’articolo sul pesto a New York. L’unico negozio nel quale ho potuto trovare un mortaio per fare il pesto è Williams – Sonoma, ma non sapevo che da parecchi anni Baudoni ne fosse il fornitore.
Sergio Rossi