Il senso del cibo
Talvolta il tempo pare trascorrere più veloce del solito, travolgendo tutto ciò che incontra sul proprio cammino; le abitudini quotidiane diventano noiosa routine e i concetti perdono di significato.
Credo che questo male stia affliggendo da tempo l’alimentazione. Nonostante mai come oggi si sia parlato tanto di cibi sani, produzioni di qualità, attenzione alla salubrità degli alimenti, nel bilancio familiare è sempre molto ridotta la percentuale di risorse destinate alle spese alimentari. Assunto che ciò non accade a causa di una generale propensione a mangiare di meno, ma solo per una diversa destinazione delle risorse, risulta evidente che almeno in parte la causa è da attribuirsi anche ad una diminuzione del costo medio di molti cibi. Perciò il problema è quanto e come si acquista: quanto e come si mangia.
La percezione del cibo come alimento vitale ha subito una deriva evidente, che pare aver portato verso una visione “culturale” dell’alimentazione distinta dal comune senso quotidiano del nutrimento. A tutto ciò va aggiunto il piacere del cibo, piacere di mangiare buon cibo, che non necessariamente, o non sempre, corrisponde al cibo sano.
La perdita più rilevante è il senso del costo del cibo e della identificazione dello stesso. Se, per esempio, non si sa come si ottenga un olio d’oliva, a partire dalla cura degli alberi e dalla raccolta delle olive, fino alla molitura e alla conservazione, non si potrà comprendere come sia impossibile scendere al di sotto di determinati costi.
Se la legge consente di denominare Olio Extravergine d’Oliva anche un olio che finisce sugli scaffali dei supermercati a 6 euro il litro, o anche a meno, la ragionevolezza impedisce di credere che quello sia davvero “olio” e comunque ci possa essere alcuna comparazione con una “semplice” spremitura a freddo di olive italiane. Che poi all’interno di una medesima tipologia di prodotti i prezzi si differenzino a seconda della zona, della varietà e dei diversi processi produttivi, è più che accettabile, ma solo entro limiti ben precisi, al di sotto dei quali non esiste alcuna ragione economica perché quel prodotto entri in commercio.
Finché non torneremo a capire il concetto base secondo il quale ogni cibo ha un prezzo minimo al di sotto del quale non ci si trova di fronte a quel prodotto ma ad un “surrogato”, si perderà ogni punto di riferimento, che è il pericolo maggiore che si possa correre.
Si chiama latte il prodotto della lattazione seguita al parto. Tutto ciò che ha caratteristiche diverse non è latte e non dovremmo neppure considerarlo tale. Diverse inchieste giornalistiche hanno ulteriormente dimostrato come una buona percentuale del latte che finisce confezionato sia frutto di un miscuglio di latti di diverse provenienze, miscelati a latte condensato. Se per la legge questo prodotto si può chiamare latte, nelle nostre teste dovremmo identificarlo chiaramente come un surrogato. Il latte fresco dovrebbe essere solo quello che esce dalle mammelle di un animale. La recente polemica sulla presunta pericolosità del latte fresco di giornata, acquistabile negli appositi distributori, ha ottenuto l’effetto pratico di aver sollevato un gran polverone e confuso le idee dei più. Lo scopo è sempre lo stesso: instillare il dubbio per poi lasciare che ognuno si faccia vincere dal principio cautelativo e scelga il “prodotto controllato”. Peccato che anche il latte di vacca dei distributori sia molto controllato e se avesse fatto male alle generazioni precedenti – quando controllato era molto di meno -, si sarebbe assistito a vere e proprie stragi paragonabili solo alle peggiori pestilenze. In una qualunque famiglia di trenta o quaranta anni or sono, il latte comprato dal contadino si beveva fresco se appena munto e il giorno dopo si bolliva.
Ciò che trovo davvero sconfortante è che su alcuni temi non si voglia fare chiarezza una volta per tutte. La scienza medica dovrebbe farsi sentire con autorevolezza e non per favorire questa o quell’altra posizione, ma semplicemente per fornire un riferimento certo che consenta a chiunque di formarsi una propria opinione, operando così le scelte conseguenti in piena consapevolezza. Se mi piace conservare in dispensa dieci cartocci di latte UHT, sono affari miei, e va da sé che non andrò a rifornirmi dal distributore automatico del latte fresco. l’importante, però, è che io possa scegliere sulla base di fatti certi.
Il concetto del costo reale di un cibo è ovviamente applicabile a tutti i prodotti e potrebbe conferire una tale consapevolezza al consumatore da renderlo quasi pericoloso per una certa parte del sistema alimentare attuale.
Che fare per tentare di acquisire in breve un minimo di queste conoscenze? Intanto cercare di usare il buon senso, che spesso è l’arma più immediata, semplice ed efficace. Poi cercare di capire le risorse agricole e alimentari del proprio territorio, attraverso le quali si entra in contatto con le realtà produttive e ci si riappropria del senso della misura. Se si ha tempo e voglia, si può partecipare a stage, corsi e visite guidate alle aziende, avendo così l’opportunità di approfondire i temi legati al rapporto fra la produzione e i costi di un prodotto. Parlare con i produttori della propria zona, siano essi agricoltori, artigiani alimentari, trasformatori ecc. aiuta a capire i meccanismi che regolano la vita di quel prodotto e una volta acquisito il senso del metodo lo si può applicare alle diverse realtà. Il contatto diretto contribuisce a riavvicinare il consumatore al prodotto e di conseguenza al cibo. Capiterà, così, che osservando un formaggio, un olio o un qualunque alimento in un supermercato, non si vedrà più la singola confezione, ma apparirà chiaramente il concetto che in essa è racchiuso, ovvero tutto il percorso di quel prodotto. E ciò renderà più semplice la scelta, soprattutto il presenza di punti di riferimento riscontrabili. Per questo lo slogan Comprare Locale acquisisce maggiore valore, poiché qualunque tipo di verifica in ambito di prossimità risulta facilitata. È molto più probabile che si riesca ad ottenere informazioni certe su come lavora un artigiano o un contadino delle vicinanze, piuttosto che conoscere i dettagli produttivi di un’azienda situata a migliaia di chilometri dalla propria casa.
L’etichetta dovrebbe dire tutto, ma purtroppo quotidiani esempi dimostrano il contrario.
Riavvicinarsi al cibo come prodotto agricolo, diretto o trasformato, aiuta a districarsi in un mondo di messaggi al limite della truffa. E soprattutto aiuta a comprendere il significato reale del cibo e dei cibi.
Ogni singolo prodotto, almeno nello stesso territorio, non può far registrare discrepanze notevoli di prezzo. Differenze motivate si, stravolgimenti no. Tornare a riacquisire il senso del cibo, significa riappropriarsi di un potere forte che deve appartenere ad ogni singolo individuo come il proprio nome.
Se non è importante sapere cosa voglio mangiare e come voglio nutrire la mia famiglia, cos’altro lo è?
Sergio Rossi